01 gennaio 2007

Il cinema di Tarkovskij e la tradizione russa



Simonetta Salvestroni
Il cinema di Tarkovskij e la tradizione russa
Qiqajon
pagg 280, euro 20

Andrej Tarkovskij è un maestro che abbiamo perso troppo presto, lasciandoci in eredità solo nove film, i cui stessi titoli generano una vibrazione interiore. La sorgiva trascendente è da cercare nella tradizione spirituale russa trasmessa a lui attraverso la mediazione di Dostoevskij ma attinta a figure alonate di luce e santità, vere e proprie icone non solo religiose ma anche culturali. Tanto per fare un paio di nomi, pensiamo a Isacco di Ninive, vissuto nel VII sec., esponente classico dell'ascetica sira, e Simeone il nuovo Teologo, autore mistico bizantino, morto nel 1022. Basterebbe solo riferirci a quel gioiello che è Andreij Rublev, grandiosa parabola non solo della crisi di un artista (il massimo pittore di icone) ma dell'umanità in quanto tale. Nel protagonista, infatti, si raggruma l'oscuro groviglio della disperazione di fronte al male accecante del mondo.

Alla fine irromperà, scandita con il trapasso del bianco e nero al colore, la liberazione salvatica: Rublev dipingerà quella stupenda icona della trinità ora custodita a Mosca, ritrovando la fede e l'arte, la speranza e la vita, la fiducia e la bellezza. La via per gingere alla salvezza non è tanto fuori, quanto dentro di lui. Per scoprirlo gli uomini hanno bisogno di entrare in contatto con una dimensione di armonia e di bellezza. E' la liberazione della bellezza-grazia del mondo, una teofania che reca in se il divino e l'umano e che sboccia dall'amore.

In quell'immenso atlante simbolico che sono i film di Tarkovskij, a partire dall'intesa e tenera Infanzia di Ivan (1962) Salvestroni riesce a far affiorare l'intero tracciato tematico di una vita interiore e di una ricerca che reca sempre in se la stimmata di luce e di sangue della spiritualità.